Oggi si parla di Catcalling, ma io spazierò come al solito.
Io sono sempre stata una cacasotto. Lo ammetto.
Mi reputo una donna coraggiosa per tanti versi, decisioni prese nella mia vita, scelte, svolte e giri di boa, e non sempre dal bordo buono. Una, in effetti, proprio il 31 marzo di qualche anno fa, che mi ha cambiato la vita.
Ho ricominciato così tante volte da capo.
Ma quando esco di casa, o ci torno, non sono coraggiosa per niente.
Non metto quasi mai le cuffie quando cammino per strada, perché ho bisogno di avere tutti i sensi all’erta. E non solo per paura che mi rubino la borsa o il telefono se lo tenessi in mano, ma proprio perché gli sguardi della gente li percepisci proprio. Ti danno fastidio e sono sgradevoli.
Se esco la notte ho le chiavi della macchina in mano quando devo entrarci, poi mi barrico dentro, e quelle del portone di casa quando scendo e devo rientrare. Bolt.
Quando ho letto di Sarah Everard, mi sono proprio rivista mille volte. Chiami un amica e gli dici: tienimi compagnia al telefono finché non entro in macchina, o finche non rientro a casa, ti va?. E ricordo benissimo il sospiro di sollievo quando varchi una porta dove finalmente ti senti al sicuro, e il battito, finalmente, rallenta.
Mi ricordo la prima volta che il catcalling mi ha investito come un tir contromano in autostrada. Camminavo per Roma in piena estate, mille gradi percepiti, stavo andando ad un appuntamento e un tizio (perché non riesco a chiamarlo signore) mi urla dal finestrino del camion:
“Aò! Te serve l’Aulin?”
E io, dall’alto della mia innocenza dei 19 anni:
“Scusi, perché?”
“Hai le tette tutte gonfie!”
Adesso, che lui sapesse cosa fosse l’Aulin mi sorprese non poco, però credo di non essermi messa magliette scollate per un bel po’. Una battuta che quell’individuo credeva un complimento ha modificato la percezione del mio corpo, in negativo.
Ricordo benissimo anche la volta che in un momento di indecisione, se girare a destra o sinistra, un tizio che guidava una moto ha quasi divelto la portiera della mia eterna compagna di viaggi, una cinquecento blu. Stavamo scegliendo in che locale andare per una birra: a destra piazza Risorgimento a sinistra piazza Cola di Rienzo. Il ragazzo, che evidentemente non ha gradito la mia esitazione, ha iniziato a battere sul vetro della mia macchina intimandomi a scendere. In quell’occasione, di tutte le macchine in fila, scese solo una mia amica per distrarre il ragazzo e cercare di calmarlo. Una sola persona. Una donna. Io pietrificata in macchina.
Un’altra sera, parcheggiando sotto casa, un tizio mi affiancò e mi disse che perdevo olio, e che se volevo potevo salire con due ruote sul marciapiede e mi avrebbe aiutato a controllare il danno. Io che non mi fido neanche della mia ombra (come fai, sembra più alta e più magra di me, non è sicuramente da ritenere affidabile!) gli dico grazie: ho un’assicurazione che paga tutto e anche di più! Richiudo il finestrino e faccio 17 giri intorno al palazzo finche non sono sicura che non sia più nei paraggi. Adesso, oltre all’immenso sforzo fisico di tirare su il finestrino dal lato passeggero della mia Cinquecento blu, che ovviamente non era elettrico, sono rientrata a casa 20 minuti dopo, col fiatone e il segno delle chiavi sul palmo della mano destra che mi ha ben ricordato lo spavento per qualche ora.
Noi Donne siamo spesso da sole in giro, ma la paura non ci abbandona mai.
L’altro giorno camminavo per Milano e una ragazza con dei pantaloni attillati camminava molto sicura di se con gli auricolari e, secondo me, la musica ad alto volume, per una via principale ad alto scorrimento. Una macchina con a bordo due tizi ha rallentato, rischiando che la macchina che gli stava dietro gli entrasse imponente fino a permettere al guidatore di abbassargli il volume dello stereo. Solo per dirle: mamma mia tesoro.
Mamma mia tesoroooo? ma che è? Ma è una cosa che vorremmo sentirci dire?
Lei non si è resa conto di niente, se non della brusca frenata del guidatore della seconda macchina, che, purtroppo, non è riuscito ad abbassare il volume della dubbia colonna sonora che i due cretini stavano ascoltando, peccato. Occasione persa. Io invece sono tornata a casa innervosita.
Questa pandemia ha sicuramente messo in stand by questa mia sensazione d’ansia, sia per il catcalling che per la paura di essere aggredita tronando a casa, ma non è finita qui sicuramente. Tornerà. Probabilmente più forte di prima.
Ho una amica, Elisa, che adora andare a correre, a qualsiasi ora, e posta nelle sue stories la sua corsa dove scarica tutte le tensioni di un anno di pandemia e di una giornata lavorativa intensa. Io vedo quelle stories e sento proprio quest’ansia che ho provato a raccontare, con ironia, in questo articolo.
Mandami un messaggio quando arrivi a casa.
Perché: mandami un messaggio quando arrivi a casa (e possono essere testimoni amiche, ma soprattutto amici) è la frase che ripeto da sempre a tutti. Quando mi scrivono sono a casa, respiro e mi addormento serena. Forse, è la frase che ho sempre voluto rivolgessero a me.
Mandami un messaggio quando sei a casa. Al sicuro.